Popolari o evangelicali?

Lettera a "Riforma"

In una delle sue prime dichiarazioni, il neopresidente della FCEI, prof. Domenico Maselli, ha mandato un messaggio anche a quegli evangelici che non appartengono alle chiese protestanti storiche. Non li ha voluti chiamare “evangelicali”, bensì “popolari”. L’idea di fondo è che questi credenti provengono storicamente da classi sociali popolane e sono più a contatto con il popolo. Dunque, una definizione sociologica di un altro modo di essere evangelico nel nostro Paese, rispetto a quello interpretato dal Protestantesimo storico. Mentre “evangelicale” sottolinea l’identità teologica, “popolare” sposta l’attenzione sulla sociologia del movimento. Legittimamente, a Maselli non piace il termine “evangelicale”, ma non credo che si tratti semplicemente di una difficoltà di estetica linguistica. La questione riguarda il modo di vedere le differenze all’interno del Protestantesimo mondiale e italiano. Sono soltanto differenze sociologiche? Di estrazione sociale? Di provenienza storico-culturale? Con il riferimento a “popolare” si dà una risposta affermativa. Con l’uso di “evangelicale”, invece, si dice che le questioni di fondo non riguardano innanzi tutto la sociologia, bensì la teologia; è una diversa comprensione della Bibbia, un diverso modo d’intendere l’esclusività di Gesù Cristo e la missione, un diverso modo di porsi di fronte alle sfide etiche. Insomma, un modo diverso d’intendere la vocazione evangelica nel mondo. Un esempio, anche italiano ma non solo italiano, può bastare. Il dibattito sull’omosessualità sta polarizzando il mondo evangelico e si stanno delineando due posizioni molto nette. In queste posizioni sono riflesse le convinzioni profonde sull’autorità della Scrittura, sul senso del peccato, sul cammino di conversione, sulla trasformazione della grazia, sul ruolo della chiesa, e via dicendo. Non è una questione sociologica, bensì teologica, ed è su questo piano che il confronto deve rimanere! Spostare l’attenzione sulla sociologia

non dev’essere un’operazione per evitare di affrontare le questioni a monte, che sono di ordine teologico. Infine, “evangelicale”, con i suoi derivati, è sempre più accettato e usato, sia dentro sia fuori del mondo evangelico. L’obiezione che non esista sul dizionario non è molto convincente. La lingua si evolve a seconda delle necessità, e nel nostro tempo, evidentemente, questo termine aiuta meglio di altri a capire un fenomeno.

L.D.C.


Altre noticine a margine dell’uso di “evangelicale”
Sociologia o teologia?

La discussione sul termine“evangelicale” può stancare qualcuno. Si ha però l’impressione che si stiano spostando i confini antichi (Proverbi 22:28). Sembra che la questione dei contenuti, quelli che per secoli sono stati l’ossatura della fede evangelica, vengano surrettiziamente spostati. Se è questo che si vuole, sarebbe meglio parlarne in maniera più esplicita, ma la tesi che sia solo una “questione di sonorità” non convince. I Riformatori ci hanno insegnato che le questioni di termini mirano talvolta a nascondere questioni di principio. La storia offre, quindi, un primo spunto su cui riflettere. Una seconda questione riguarda proprio la politica ecclesiastica. Se la faccenda potesse essere risolta in termini sociologici, le chiese si vedrebbero costrette a pensare in termini di Facoltà di sociologia, anziché Facoltà di teologia. Anche questo è possibile, ma qualcuno potrebbe allora legittimamente chiedersi se si stia ancora parlando di chiese collegabili alla Riforma e all’Evangelo. In terzo luogo, basta attivare un motore di ricerca su Internet per rendersi conto che il termine ha già ampio diritto di cittadinanza, visto che a esso corrispondono ormai centinaia di pagine. E allora bisogna prendere atto che l’unità degli evangelici, per quanto auspicabile, non c’è più e che bisogna fare i conti con la situazione attuale, senza sognarne una che non c’è.

P.B.